LA PREVISIONE DELLE ERUZIONI
Parte di questo testo è ripreso dal libro
"Vulcanologia: Principi Fisici e metodi di indagine" di R.Scandone e L.Giacomelli
pubblicato da Liguori nel 1998
Molto spesso prima che avvenga un'eruzione di un vulcano
quiescente si verifica una serie di fenomeni indicativi di uno stato anomalo
del vulcano; questi fenomeni, anche se vengono definiti precursori, non
sono altro che un processo vulcanico già in atto. Il fatto che anticipino
l'eruzione vera e propria di un periodo di tempo più o meno lungo
dipende da fattori che al momento restano in gran parte sconosciuti. Non
ha quindi molto senso parlare di precursori di lungo, medio o corto periodo,
in quanto gli stessi fenomeni possono durare per tempi molto diversi, a
seconda della natura fisica del vulcano e dei magmi connessi.
Da questo si comprende come uno dei compiti primari della
vulcanologia sia quello di ricostruire un modello fisico di vulcano che
permetta di elaborare delle previsioni sul suo comportamento, soprattutto
per i vulcani che si trovano in fase quiescente da lungo tempo e per i
quali le modalità eruttive sono poco note.
Pur essendo il quadro dei fenomeni premonitori tutt'altro
che chiaro, il verificarsi di una serie di essi indica una situazione anomala
o in profondità o segnalare addirittura il possibile arrivo di magma
a livelli superficiali. Anche se sono poche le informazioni relative ai
tempi caratteristici dei fenomeni precursori, in generale si è notato
che le eruzioni effusive di magmi basaltici sono anticipate da fenomeni
della durata di pochi giorni, mentre le eruzioni di magmi più differenziati
hanno precursori con tempi più lunghi. Questa differenza può
essere legata ai differenti meccanismi eruttivi con cui avvengono le eruzioni
effusive e quelle esplosive.
Oltre alla difficoltà nel valutare la durata dei
fenomeni precursori, la previsione di un evento eruttivo è difficile
anche per il fatto che l'eruzione rappresenta una discontinuità
nel comportamento fisico del sistema vulcanico. Prima dell'eruzione, il
sistema è prossimo a una condizione di instabilità e ogni
piccola variazione dei fattori che ne controllano lo stato può avere
effetti determinanti. Se si pensa a un bicchiere completamente ricolmo
d'acqua, il trabocco può avvenire quando si aggiunge un'altra goccia,
quando si dà un piccolo colpo al bicchiere, quando cambia la temperatura
dell'acqua o del bicchiere, quando varia la pressione atmosferica, ecc.
Un vulcano che sta per eruttare è qualcosa di molto simile e per
fare una previsione sul suo comportamento si dovrebbe tenere sotto controllo
un numero di parametri che spesso sfuggono a qualsiasi misura. Proprio
la complessità del fenomeno è una delle ragioni per le quali
le risposte di un vulcanologo risultano spesso imprecise o ambigue.
Fra i vari tipi di osservazioni che vengono fatte per
controllare lo stato di un vulcano citiamo qui di seguito le più
usate
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LE DEFORMAZIONI DEL SUOLO
Un'iniezione di magma al di sotto o all'interno di un edificio vulcanico
provoca normalmente un piccolo ma rilevabile rigonfiamento (inflazione),
temporaneo o permanente, dell'apparato stesso. Il verificarsi di un'eruzione
o della migrazione del magma in fessure laterali, può provocare
uno sgonfiamento dell'edificio (deflazione).
Alcuni esempi storici di vistose deformazioni del suolo che hanno accompagnato
o preceduto delle eruzioni sono, oltre alla citata variazione della linea
di costa avvenuta prima dell'eruzione del 1538 di Monte Nuovo nei Campi
Flegrei (Parascandola, 1947), il rigonfiamento di un campo arato prima
dell'eruzione del Paricutin (Messico) del 1943 e l'eruzione dell'Usu (Giappone)
del 1944. Non sempre le deformazioni del suolo in aree vulcaniche sono
immediatamente seguite da eruzioni. Ad esempio, il sollevamento della zona
dei Campi Flegrei nel 1970 e 1982 e della caldera di Long Valley
nel 1980-83 non hanno, a tutt'oggi, segnato l'inizio di una ripresa di
attività, mentre a Rabaul (Papua, Nuova Guinea) dove fra il 1971
ed il 1984 si era avuto un comportamento analogo a questi due casi, è
avvenuta un'eruzione nel settembre del 1994.
-
LA SISMICITÀ NELLE AREE VULCANICHE
Una variazione delle condizioni di pressione nel serbatoio magmatico o
una migrazione di magma possono causare terremoti al di sotto di un vulcano.
Nel caso delle eruzioni vulcaniche, l'esperienza indica che a volte il
numero dei terremoti aumenta con l'approssimarsi dell'eruzione. A volte,
un aumento della sismicità, come nel caso della registrazione di
uno sciame sismico, cioé di centinaia di terremoti in poco tempo,
avviene senza essere seguito da un'eruzione. I precursori sismici possono
avere intervalli di tempi molto variabili da vulcano a vulcano e anche
da eruzione a eruzione nello stesso vulcano. Alcuni precursori sismici
sono stati seguiti da un'eruzione a distanza di un anno o più (es.
Krakatau, 1883; Nevado del Ruìz, 1985), altri di molti anni (Rabaul,
1994), ma nella maggior parte dei casi i tempi sono di settimane o di mesi
(St. Helens, 1980; Pinatubo, 1991). In alcuni casi i precursori sismici
si avvertono pochi giorni o ore prima dell'eruzione (Krafla, Islanda, 1975-82;
gran parte delle eruzioni del Kilauea; Usu, 1977; Redoubt, 1989-90).
La sorveglianza sismica di un'area vulcanica consiste nell'osservare
i terremoti che vi avvengono, nel catalogarli e nel cercare di capire se
essi mostrano andamenti più o meno regolari nello spazio e nel tempo.
Ci si aspetterebbe che il movimento verso la superficie di una certa quantità
di magma provochi terremoti a profondità sempre più basse.
In realtà un andamento simile è stato osservato solo raramente
e i casi sono citati ad esempio. Più spesso, la sismicità
sotto il vulcano appare distribuita casualmente e, talvolta, si osserva
addirittura una migrazione dei terremoti verso il basso nel corso dell'eruzione.
Altre volte, insieme a un aumento generale del numero di terremoti nel
tempo, si è osservato anche un incremento nei terremoti superficiali
rispetto a quelli profondi. Questo fatto è ritenuto un sintomo dell'approssimarsi
di un'eruzione.
Altri fenomeni sporadici possono essere considerati precursori di un'eruzione.
Ad esempio, l'avvicinarsi del magma può causare un aumento di temperatura
alla superficie del vulcano, anche se questo processo è limitato
dalla bassa conducibilità termica delle rocce. Le fumarole, originate
dal riscaldamento dell'acqua di falda e frequenti anche su vulcani quiescienti
da lungo tempo, possono avere variazioni di temperatura e di composizione
chimica prima di un'eruzione. Infatti, una risalita di magma può
aggiungere nuovi tipi di gas ai vapori delle fumarole e causarne un aumento
di temperatura e la variazione di composizione chimica. Se le fumarole
emettono vapore acqueo, la loro temperatura può innalzarsi fino
al punto di ebollizione dell'acqua a quella profondità, mentre la
composizione chimica può variare solo se vi è essoluzione
di gas magmatici.
I precursori dell'eruzione del St. Helens del 18 maggio 1980
Per meglio comprendere la natura di questi fenomeni riteniamo
opportuno riportare il quadro dei precursori osservato con la ripresa di
attività del vulcano St Helens negli Stati
Uniti dopo un periodo di riposo di 123 anni.
Un dettagliato studio dell'eruzione del St. Helens è
fornito dalla pubblicazione speciale 1250 del US Geological Survey (Lipman
e Mullineaux, 1981), alla quale ci rifacciamo per la ricostruzione degli
eventi. Altre informazioni sono fornite da Foxworthy e Hill (1982).
Alle 15.37 del 20 marzo 1980 i sismografi della rete
sismica dell'Università di Seattle, Stato di Washington nel Nord-Ovest
degli Stati Uniti, registrarono un terremoto di magnitudo 4.1, localizzato
sotto il vulcano St. Helens. Il terremoto fu seguito da una serie di altre
scosse più piccole, con una sequenza diversa da scossa principale-repliche
e con caratteristiche simili a quelle di uno sciame.
Il giorno successivo, 21 marzo, quattro stazioni sismiche
addizionali sono installate in prossimità del vulcano, al fine di
ottenere una migliore localizzazione degli eventi. Nel frattempo, l'attività
sismica continua ad aumentare e si registrano terremoti di magnitudo 4.
Il 23 marzo i sismologi di Seattle intuiscono che la
sismicità è un segnale di imminente ripresa dell'attività
vulcanica. Tuttavia i voli di ricognizione sulla cima del vulcano (alto
circa 3000 metri) non mostrano altro che alcune valanghe causate dai terremoti.
Solo il 25 marzo è possibile osservare nella neve la formazione
di una fessura sulla cima del vulcano. Lo stesso giorno viene proibito
l'accesso alla zona compresa entro circa 3 miglia dalla cima del vulcano.
Il 27 alle 12.30 fu osservata la prima esplosione
di cenere e vapore. In quello stesso giorno viene diramato l'allerta ufficiale
di rischio per possibile eruzione vulcanica. Da quel momento in poi furono
osservate numerose altre esplosioni e il cratere alla sommità del
vulcano continuava ad allargarsi per effetto delle continue esplosioni.
L'analisi delle ceneri emesse mostrava che si trattava di materiale rimaneggiato
senza presenza di magma iuvenile e, quindi, le esplosioni dovevano essere
provocate dal riscaldamento di acque di falda.
Il 1° aprile si notò un allargamento del cratere
e un rigonfiamento di tutto il fianco Nord del vulcano. Alle 19:25 dello
stesso giorno, i sismografi registrarono la prima comparsa di tremore sismico.
Il numero dei terremoti giornalieri cominciò a diminuire, mentre
aumentava il numero di quelli a magnitudo più elevata. Nel
mese di aprile l'attività continuò senza grandi variazioni,
ma il confronto fra le foto aeree fatte nel luglio del 1979 e quelle del
12 aprile 1980 mostrava un rigonfiamento del fianco Nord del vulcano che,
in alcuni punti, superava gli 80 metri (Fig. 5-19).
modificata da Foxworthy e Hill, 1982
Il 23 aprile iniziarono le misure distanziometriche tramite
geodimetri a laser, con caposaldi posti sul fianco Nord dell'edificio vulcanico.
In precedenza erano stati installati dei tiltmetri, per misurare la variazione
di inclinazione del suolo, che avevano confermato il progressivo rigonfiamento.
Alla fine di aprile diminuiva il numero giornaliero di terremoti, anche
se l'energia liberata rimaneva pressoché costante per i numerosi
terremoti con magnitudo superiore a 4 (Fig. 5-20).
Il fianco Nord della montagna continuava ad espandersi,
ma con velocità di deformazione inferiore a quella osservata all'inizio
di aprile. Nonostante questi segni apparentemente rassicuranti, la zona
di divieto di accesso venne estesa fino a distanze fra tre e otto miglia
dalla montagna. Questa misura veniva adottata principalmente per il pericolo
di frane indotte dalla instabilità dei pendii.
Alla fine di aprile il sistema di sorveglianza attorno
al vulcano era costituito da 15 stazioni sismiche, 5 tiltmetri, 14 riflettori
per misure distanziometriche, 6 stazioni per la misura dell'accelerazione
di gravità e tre magnetometri a lettura continua. Il Geological
Survey coordinava tutte queste ricerche con un ufficio a Vancouver a circa
50 km dal vulcano. All'inizio di maggio il vulcano continuava la sua attività
in maniera pressoché costante.
Il 18 maggio il vulcanologo Dave Johnston si trova sul
fianco Nord del vulcano per eseguire misure di deformazione ed analisi
di gas. Alle 8.32, senza alcun altro avvertimento, un terremoto di magnitudo
5.2 scuote il vulcano. Contemporaneamente, due geologi che stanno sorvolando
il cratere osservano il distacco e il franamento dell'intero fianco Nord
del vulcano. Mentre la frana è in corso, essi vedono sorgere nubi
di vapore dai lati della frana e dalla nicchia di distacco. Una nube di
cenere si espande velocemente dal fianco franato e si propaga ad una velocita'
di circa 100 chilometri all'ora verso Spirit Lake. Tutto il lato Nord del
vulcano viene rimosso da un'esplosione laterale che devasta circa 550 km
2 di territorio. La colonna eruttiva pliniana raggiunge quote superiori
ai 27 km e continua ininterrottamente per circa 10 ore, emettendo circa
0.25-0.5 km3 di nuovo magma e distruggendo 2.5 km3 di montagna.
CONSIDERAZIONI GENERALI SUI PRECURSORI DELLE ERUZIONI
Molti esempi riportati in letteratura dimostrano che
non esiste attualmente un modo per prevedere l'inizio di un'eruzione con
accuratezza deterministica, cioè non è possibile determinare
in maniera non equivoca il tempo, il luogo e l'entità di una futura
eruzione. Paradossalmente, il problema della previsione dell'inizio di
una eruzione è in qualche modo secondario rispetto al problema della
previsione del tipo di eruzione e del momento in cui questa raggiungerà
la massima intensità. Molto spesso, l'inizio dell'eruzione non coincide
con la fase più pericolosa che può verificarsi a distanza
di giorni o anche di mesi. Ciò rende estremamente difficile il compito
dei vulcanologi nel momento in cui vengono consultati per predisporre misure
di evacuazione. Confrontando la successione dei precursori di alcune eruzioni
recenti si nota come in alcuni casi la fase più violenta dell'eruzione
sia preceduta da un'attività vulcanica minore. Quando questo si
verifica, la fase meno intensa può servire come base per la valutazione
delle misure di prevenzione da adottare.
Questi ultimi 20 anni ci hanno fornito un numero di casi
sufficienti a farci comprendere quanto siano difficili le scelte nei momenti
di emergenza. Ad esempio, le crisi sismiche e di deformazione del suolo
che si sono avute nelle caldere di Long Valley e dei Campi Flegrei negli
anni 70 e 80 non sono state seguite da alcuna eruzione, anche se i fenomeni
osservati erano del tutto simili a quelli avvenuti prima di altre eruzioni
nelle stesse aree. Tuttavia, precursori così evidenti non possono
essere liquidati come falsi allarmi, senza considerare che il loro verificarsi
è sintomo di uno stato di instabilità del sistema che può
essere in condizioni prossime a quelle eruttive. Rabaul, che fino a poco
tempo fa presentava molte analogie con i Campi Flegrei con precursori non
seguiti da attività, ha eruttato con un preavviso di sole 26 ore.
Precursori a breve termine si sono avuti nel caso delle eruzioni del Redoubt
nel 1989-90, con poco più di un giorno di preavviso o dell'Hekla
nel 1991 con meno di mezz'ora di preavviso, segnalato da una improvvisa
variazione di inclinazione senza apprezzabile sismicità.
Nel 1976-77 una crisi sismica e le successive esplosioni
freatiche alla Soufrière della Guadalupe furono causa di allarme
fra la popolazione e di disaccordo fra i vulcanologi incaricati di interpretare
questi fenomeni. La stessa cosa era avvenuta durante la crisi ai Campi
Flegrei nel 1972, dove la densità della popolazione, nonché
il fatto che anche le zone limitrofe che potevano essere destinate ad accogliere
le persone evacuate sono densamente abitate e collocate all'interno della
caldera, crearono problemi pratici e di responsabilità molto gravi.
Alla Soufrière della Guadalupe, la natura freatica delle esplosioni
venne utilizzata per escludere la possibilità di fasi più
intense.
L'esperienza del St. Helens nel 1980 ha mostrato che
le esplosioni freatiche possono essere un precursore dell'attività
magmatica più violenta. Una successione analoga di fenomeni è
avvenuta durante l'eruzione del Pinatubo nelle Filippine, mentre l'attività
magmatica di El-Chichon, in Messico, non è stata preceduta da alcuna
attività freatica.
Anche l'esperienza geologica, ricavata dagli studi sui
depositi delle eruzioni esplosive, sembra fornire crescenti prove del verificarsi
di fasi iniziali di tipo freatico. Infatti, alla base dei prodotti di numerose
eruzioni pliniane, si ritrovano spesso i depositi di esplosioni freatiche.
Bisogna poi tenere conto del fatto che non si è
mai avuto un caso di sorveglianza completa di un vulcano che ritorna in
attività. In molti casi le informazioni sono frammentarie o si riferiscono
solo ad alcuni tipi di precursori. Gran parte dei sistemi di sorverglianza
ben collaudati si trovano su vulcani che sono in stato di attività
semipermanente, come il Kilauea alle Hawaii, l'Etna ed alcuni vulcani giapponesi.
Al contrario, il progredire delle conoscenze e l'esperienza di questi anni
fanno ritenere che le eruzioni più violente possono avvenire sui
vulcani che si trovano da lungo tempo in stato di quiescenza e che a volte,
proprio per questa ragione, sono scarsamente sorvegliati o del tutto ignorati.
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